Una famiglia ai confini - Don Pedro e i figli dell'oceano
- Giacomo Porra
- 7 dic 2022
- Tempo di lettura: 8 min
Aggiornamento: 7 feb 2023
Scendo dal tuc-tuc ancora frastornato dal turbolento viaggio. Più di cinque ore su due chicken bus, vecchi autobus scolastici americani* riciclati, praticamente gli unici mezzi pubblici esistenti in Guatemala. Da Antigua, a 1500 metri sul livello del mare, ora mi trovo a pochi metri dalla costa del Pacifico. Il tassista prende i miei venti Quetzales e mi lascia di fronte alla salina "La Criba", come da indicazioni di Marino, mio amico italiano che vive in questo paese da oltre trentacinque anni. Dovrei andare a casa di Pedro, un suo compare di vecchia data, che vive con la sua famiglia in "condizioni molto umili" di fronte alla spiaggia, dalle parti del Paredon, località nota solo ai surfisti che cercano onde da queste parti. Chiamo Pedro, risponde una voce metallica e distante dicendomi di andare al molo dietro alla salina, che "uno dei fratelli" verrà a prendermi. Imbocco il sentiero, sono un po' teso e ho lo stomaco leggermente sottosopra. Non ho idea di dove io stia andando, mi sto lasciando completamente trasportare dalla situazione, sono ancora scombussolato dal viaggio, e stanco dal trekking sull'impressionante Volcán de Fuego del giorno prima.

Mentre cammino in mezzo ai teli neri e alle pozze d'acqua delle saline, alcuni lavoratori mi salutano da lontano in inglese e mi chiamano gringo. Chiedo informazioni, mi spiegano come arrivare al molo. Avanzo un altro po' e mi fermano due bambini, sui dieci-undici anni, un maschio e una femmina, in bici. "Stai andando da Don Pedro"? Mi chiedono in modo serio. In Guatemala si usa dare l'appellativo "Don" a qualsiasi uomo sopra la cinquantina, per rispetto. Senza troppa confidenza faccio un cenno di assenso, sospettoso dei ragazzini. Li seguo in silenzio. Camminiamo qualche centinaio di metri e arriviamo in una piccola apertura sul mangroveto, con alcune vecchie barche di legno galleggianti. Aiuto i due (che scopro chiamarsi Lester e Berenice) a caricare le bici nella piccola imbarcazione. Quindici minuti di remata silenziosa, interrotta solamente da piccoli ordini di Lester verso la sorella "più a sinistra", "occhio all'albero". Da qualche decina di metri nell'acqua già si vede la casa. Due grandi capanne - una chiusa, dormitorio, l'altra aperta, cucina - fatte di pali, tavole di legno e spessi teli di plastica neri costituiscono il complesso abitativo della famiglia di Pedro, in una lingua di sabbia tra laguna e oceano. Mi accoglie una famiglia numerosa e sorridente: madre, padre e sette figli, tutti timidi quanto abbronzati.

Scambio due battute con Pedro, un sorridente signore sulla sessantina, con cappellino da skater e cappuccio, sempre pronto a scherzare e a commentare il pescato del giorno e lo stato del mare. Sua moglie, che già mi guarda come una mamma, si chiama Juanita, ha qualche anno in meno di Pedro e delle visibili vene varicose che le popolano le gambe. Mi consiglia di mettere lo zaino sopra una panca, per evitare che i cani ci orinino sopra, e mi offre un piatto di yuca (conosciuta in altre parti del mondo come manioca o cassava, è un tubero che costituisce la gran parte della dieta di molte popolazioni) e un caffè. Chiacchierando, mi sento via via più a mio agio. Mi presento stringendo la mano a tutta la squadra: Sofia, la più piccina, ha sei anni e gli occhi da furbetta; Lupita, che già si comporta da piccola donna; Dionisio detto Nicio, dal perenne sguardo malinconico che si rompe in una bella risata ad ogni scherzo; Lua, la più grande e la più silenziosa; Jairo, diciottenne ben fisicato steso sull'amaca. E poi i due che mi avevano accompagnato: Lester, ragazzino molto sveglio dall'umorismo tagliente e Berenice, che non si fa mettere i piedi in testa da nessuno.

Da lì iniziano cinque giorni indimenticabili, in cui ho conosciuto una famiglia ai margini della società, che vive in estrema povertà senza acqua corrente, senza elettricità, senza bagno (i bisogni si fanno nel monte, le sterpaglie che circondano l'abitazione). I piatti li lavano nella laguna, i vestiti li lava Juanita nei lavatoi pubblici quando va a vendere in paese il pesce fresco, pescato nella notte dal marito. Per fare la spesa, il minimarket più vicino è a venti minuti di barca più venti minuti in bici. Per andare a scuola i bambini devono fare ancora più strada: remare mezz'ora e camminare altrettanto tempo nella spiaggia che li separa dal piccolo villaggio del Paredon. "Partiamo alle sette, per essere in classe alle otto". Ho fatto questo tragitto la prima sera, per andare a bere una birra con Pedro. Ci ha accompagnati Nicio, quattordici anni compiuti oggi. Non so se mi ha stancato di più remare o camminare nell'infinita e buia spiaggia, fissando le luci del villaggio che sembravano non avvicinarsi mai. Arriviamo al ristorante, ordino due birre Gallo sovraprezzate e una porzione di patatine fritte, e passo il menù al ragazzino, così che si scelga qualcosa da bere. La sua risposta mi lascia spiazzato: "Non so leggere". Almeno la metà dei bambini della famiglia non stanno ricevendo un'educazione di base, nonostante la fatica per raggiungere la scuola. Al ritorno ci sorprende un'acquazzone. Aspettiamo al buio, al riparo in una capanna di pescatori nella spiaggia. In pochi minuti il cielo si rischiara.
Prima di andare a dormire nella mia tenda monoposto piantata a pochi metri dalla cucina, la signora Juanita mi avvisa "Stai attento di notte, perché i cani non ti conoscono, e potrebbero morderti". Comprendendo i cuccioli nati da poche settimane - di cui uno morto e interrato durante la mia permanenza - conto quattordici cani. Quattordici. Di notte latrano furiosamente a ogni mio piccolo movimento dentro la tenda. All'alba non ho il coraggio di uscire per fare la pipì. Nei giorni seguenti imparo a domarli: basta brandire minacciosamente un palo, o fare finta di lanciarli un sasso, e si dileguano.

La principale attività della mia permanenza lì è stata la pesca. Dal lato della laguna, la prima mattina, all'alba, esco in barca con Lester. Mi affida la mia paleta - un pezzo di legno piatto con un manico, al quale viene attorcigliato il filo da pesca, il piccolo piombo e l'amo - e mi spiega come si lancia. Dopo qualche prova impacciata capisco il meccanismo. Fortuna del principiante, pesco un esemplare di quello che chiamano badri (o qualcosa del genere), una specie di pesce gatto dai lunghi baffi "ottimo nel caldo de pescado" (brodo con pezzi di pesce e verdure). Lester giura che nella sua decennale carriera non ha mai pescato un badri così grande. Mentre spezza con il coltello le sue pinne puntute, cercando di non ferirsi, mi dice, eccitato: "Questo lo diamo a mia mamma che lo vende al mercato, va bene?". Faccio un cenno di assenso sorridendo, contento di aver fatto la mia piccola parte per l'economia familiare. Nei giorni seguenti mi ha insegnato a lanciare la rete (da parte mia 0% di successo, mai pescato nemmeno un pesciolino) e a remare. Remare da un solo lato, con stile, come fanno loro: dando una remata e poi una mezza contro-remata per raddrizzare la barca, in modo da farla andare nella direzione desiderata.

In casa si beve molto caffè, almeno tre tazze al giorno. Lo bevono tutti, la piccola Sofia di 6 anni compresa. Nella cucina collaborano tutti: si danno ordini a vicenda, lavano, cucinano, giocano con i cagnolini. In modo buffo, disordinato ma efficiente. Nei dintorni della cucina ci sono molti animali oltre ai cani: galline, due colombe e addirittura un cucciolo di procione. "Si chiama Chico", mi spiega Berenice, coccolandolo. "Non morde, non ha ancora i dentini cresciuti. Lo ha trovato mio papà circa una settimana fa". E trattato meglio di tutti gli altri animali domestici: ha il suo collare rosso, e di notte dorme nella capanna con tutta la famiglia. "Fino a qualche mese fa non vivevamo qui", mi spiega Don Pedro. "Vivevamo sul margine della Boca Barra, il canale d'acqua che ci separa dalla spiaggia che va al Paredon, a duecento metri da qui. Era un posto più bello, non c'erano zanzare. Anche la capanna era molto più bella, aveva il tetto di palma e l'aria passava meglio. Poi la laguna ha cominciato a mangiarsi l'argine, e abbiamo dovuto spostarci. Tra un paio di mesi dovremmo tornare di là".

Il sole era già sceso da un pezzo, e io ero steso sull'amaca, rilassandomi. Si avvicina Jairo e mi dice "Si sente musica dal rancho (il primo ristorante del Paredon, distante chilometri), forse c'è festa. Vuoi venire?" Io, immaginandomi di ballare impacciato in mezzo ai sinuosi movimenti costeñi dei ragazzi locali, mi scuso dicendo di essere stanco, e che credo che rimarrò a riposare. Dopo pochi minuti torna alla carica Berenice. "Mio fratello chiede se vuoi venire al rancho con noi..." Non posso dirle di no. Remo sia all'andata che al ritorno, siamo in due a remare. Nella barca siamo io, Jairo, Berenice, Lua e Nicio. Navighiamo in silenzio nelle scure acque della laguna salata, guardando i pesci saltare quando disturbati dal nostro passaggio. Arrivati al rancho, scopriamo che la festa è un matrimonio. Restiamo una mezz'ora come ipnotizzati, all'ombra fuori dall'entrata del locale, guardando le coppie ballare, volteggiare e lanciarsi in passi latini a ritmo di musica. Dentro tutti i presenti hanno vestiti eleganti, sono puliti, bellissimi. Fuori noi, con le nostre magliette usurate, siamo sporchi, bellissimi. Nel ristorante lavora il figlio più grande di Pedro, Jhovany. Ha ventun anni e lavora lì come cameriere e tuttofare. Per comodità, si è trasferito al Paredon, e ha un alloggio dove lavora. Nicio, mandato in missione, entra dalla porta dietro della cucina. Esce dopo una decina di minuti con una caraffa di tè de Jamaica (un infuso scarlatto, dolce, molto bevuto in Messico e in Guatemala) e una fetta di torta nuziale, da condividere tra tutti. Buonissima. I presenti che ogni tanto ci passano di fianco ci ignorano. Io penso a tutto il cibo che verrà sprecato in quella festa, e a quanto farebbe felice quei bambini.

L'ultima sera, al tramonto, dopo una giornata passata in barca con Lester e Nicio a pescare, a nuotare e a fotografare i molti uccelli che popolano il mangroveto, propongo di fare "momento foto". I bambini si divertono molto, facciamo molti scatti al tramonto, in varie pose, alcune in gruppo, alcune singole, alcune con gli animali, alcune ballando, alcune facendo capriole. Bambini sorridenti, bambini felici, bambini liberi. Bambini senza un'istruzione decente, bambini dimenticati dallo stato, bambini poveri. Bambini che difficilmente potranno sognare, bambini che si vedranno chiudere molte porte, bambini che forse si dovranno accontentare, bambini che dovranno lottare molto più duramente di altri. Solo perché nati in un posto più sfortunato di altri.

In Guatemala ci sono moltissime famiglie nella stessa situazione. La maggior parte supera il problema mandando un figlio lavorando al norte, al otro lado: negli Stati Uniti. Nella gran parte dei casi andandoci come migranti illegali. Oltrepassando il Messico in bus, affidati ai coyote - coloro che portano i migranti al di là del confine, per ingenti somme pagate con prestiti di amici e parenti che già si trovano nella terra promessa -, per poi attraversare a piedi il deserto, fino ad arrivare a Phoenix o a Tucson in Arizona, o a qualche città del Texas. Sperando di non morire di sete nel cammino, stremati dal caldo, o sparati da qualche guardia di confine. O sperando, una volta arrivati, di non essere rimpatriati forzosamente. Per chi riesce ad arrivare, il gioco è fatto. Lavoro ce n'è molto, e ben pagato. Nell'edilizia si guadagna fino a tremila dollari al mese. In Guatemala, il salario mensile di un commesso in un negozio è di millecinquecento. Quetzales. Equivalenti a meno di duecento dollari. I soldi che arrivano dai lavoratori emigrati compongono la fetta più grande delle entrate del Guatemala. Con quei soldi si vedono cambiare le sorti di moltissime famiglie: si costruiscono case, si comprano automobili, si mandano i figli a studiare in città. God Bless America.

Prima di congedarmi, abbracciando uno a uno quei figli dell'oceano, vedo Lester impegnato a tagliare qualcosa con un coltello da cucina, mezzo nascosto. Mi avvicino. Dice "Listo. Ecco qui la tua paleta". Mi aveva costruito uno strumento con cui potrò pescare nel mio viaggio, di dimensioni più piccole degli altri, adatto ad essere portato in zaino. Poi, senza farsi notare dai fratelli, prima di salutarmi per l'ultima volta mi affida un rosario di plastica, di quelli che si illuminano al buio.
Giacomo Porra
*Il termine "americani" non è corretto, perché si riferisce a tutti gli abitanti del continente. "Nord americani" non sarebbe comunque corretto, perché il Messico fa parte del Nord America. "Statunitensi" neppure, perché il nome ufficiale del Messico è Estados Unidos Mexicanos. Quindi, dato che nel linguaggio comune il termine americano si riferisce agli USA, utilizzo il termine americano.
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